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Falabrac: l’origine medievale e cavalleresca del termine piemontese

Diamo il benvenuto su queste pagine a Paolo Benevelli, studioso ed appassionato della storia del Piemonte e dei suoi personaggi, che ha scelto di raccontarci l’origine di un termine popolare della tradizione piemontese: Falabrac, esplorandone l’origine storica e l’etimologia che risale al medioevo e ai poemi cavallereschi.

Ma andiamo per ordine:

Nei miei post mi diletto ad evidenziare, attraverso l’esame della lingua e dei singoli vocaboli, quanto la cultura francese abbia influenzato e permeato nei secoli passati quella piemontese. Una parola piemontese che ci rivela questo passato è “Falabràch” o Falabrac. Cosa significa “Falabràch”?

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Se un piemontese indica qualcuno e dice, scuotendo la testa: “Chiel lì a l’è mach an falabràch!”, egli intende definire questa persona come ciò che in italiano può dirsi un cialtrone, un parolaio, una persona di paglia, un pagliaccio, un venditore di fumo.

Origine del termine Falabrac

“Falabràch” è la trasposizione piemontese della parola francese “Fier-à-bras”. Chi è il “Fier-à-bras” (detto anche”Fierabras”)?

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Sostanzialmente la stessa cosa: il “Trèsor de la langue française” lo definisce come: «Homme qui fait étalage d’exploits imaginaires, en simulant la bravoure. Synon. fanfaron, matamore, rodomont (littér.) − P. ext. Homme sans compétence particulière qui se donne des airs avantageux, plastronne. Synon. crâneur, poseur».

I vocabolari piemontesi ottocenteschi invece traducono Falabrac come «Omaccione, fantoccione, fastellone». Ma com’è penetrata questa parola nel lessico piemontese?

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Fier à Bras e Carlo Magno

Attraverso les Chansons de Geste medievali. Fier-à-Bras è infatti il protagonista della “Chanson de Fier-à-Bras”, una delle più popolari canzoni di gesta francesi, la cui composizione cade verso il 1170. Fier-à-Bras è un cavaliere saraceno, un gigante alto 15 piedi, figlio del re moro di Spagna Balan e fratello della bella Floripas.

Egli, con l’esercito saraceno, invade Roma e la mette a sacco, impadronendosi di varie reliquie, tra le quali la croce, la corona di spine e il balsamo con il quale era stato unto da Maria Maddalena il corpo di Gesù Cristo, che aveva la proprietà miracolosa di guarire qualsiasi ferita.

Dopo aver saccheggiato Roma, l’esercito saraceno ritorna in Spagna, ma viene inseguito da Carlo Magno, che invade la penisola iberica per recuperare le reliquie. Fier-à Bras viene affrontato in duello dal cavaliere Olivier, che lo vince. Durante il duello però Fier-à-Bras viene toccato dalla fede cristiana, e si converte. Decide così di diventare un cavaliere dell’esercito di Carlo Magno.

Ma nel frattempo i Saraceni catturano quattro cavalieri cristiani, tra i quali Olivier. La sorella di Fier-à-Bras, Floripas, che si trova nel campo saraceno, però si innamora di uno di loro, Guy de Bourgogne, e li aiuta a fuggire. Dopo una serie di episodi, vi è lo scontro finale tra l’esercito saraceno e quello di Carlo Magno.

Il re Balan è ucciso in battaglia, e le reliquie recuperate e inviate alla basilica di Saint-Denis per esservi conservate. Carlo Magno divide il regno di Balan in due, affidandone una metà a Guy de Bourgogne (che nel frattempo ha sposato Floripas), e una metà a Fier-à-Bras.

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Esistono tre versioni antiche del Fier-à-Bras: una lunga in occitano, una più breve in langue d’oil, e un’ altra lunga di nuovo in langue d’oil.

La “ Chanson de Fier-à-Bras“ conobbe nei secoli seguenti adattamenti nelle varie lingue: in inglese “Ferumbras” e “Sowdon of Babylon”, in spagnolo “Fierabrás” e “Historia del emperador Carlomagno y de los doce pares de Francia“, in italiano “Cantare di Fierabraccia“, in Germania “Fierrabras”.

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Don Chisciotte e il Balsamo di Ferabras

Storia a parte ha il “Balsamo di Ferabras” che, partendo dalla base dell’originario balsamo usato da Maria Maddalena, diventa nelle saghe cavalleresche successive una pozione magica in grado di guarire ogni male. Essendo morbosamente appassionato di letteratura cavalleresca, anche Don Chisciotte lo conosce bene.

Cervantes ci racconta l’episodio in cui Chisciotte afferma di conoscerne la ricetta e tenta di prepararlo, bevendone lui e facendone bere a Sancho Panza.

Senonchè, mentre l’intruglio produce su di lui vomito, sudorazione e sonno profondo, su Sancho Panza provoca una violentissima crisi di diarrea che lo porta quasi a morire. E Don Chisciotte trova che tutto ciò sia giusto perché, mentre lui è un nobile cavaliere, Sancho non è altro che un rozzo scudiero.

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Fier à Bras nei secoli seguenti

Ma tornando à Fier-à-Bras, la sua storia continuò ad essere scritta in varie versioni fino a tutto il XVII secolo. Nel 1478 Jehan Bagnyon diede alle stampe a Ginevra (quando questa città apparteneva ancora al Ducato di Savoia) il “Rommant de Fierabras le géant“, dove si narra «La conqueste du grand Charlemagne roy de France et d’Espagne avec les faits, et gestes des douze paires de France et du grand Fierabras, et le combat fait par lui contre le petit Olivier qui le vinquit et des trois frères qui firent les neuf épées, dont Fierabras en avoit trois pour combattre contre les ennemis, comme verrez ci-après».

“La conquista del grande Carlo Magno Re di Francia e di Spagna, con i fatti e le gesta di dodici pari di Francia e del grande Fierabras, e il duello da lui fatto contro Olivier che lo vinse, e dei tre fratelli che fecero le nove spade, di cui Fierabras ne ebbe tre per combattere contro i nemici, come vedrete qui di seguito”. L’eco delle gesta di Fier-à-Bras (o Fierabras) era giunto anche nel milanese, il cui vocabolario di Cletto Arrighi del 1896 riporta il termine “Falabrach” come aggettivo all’epoca ormai desueto, con il significato di “Fantastico, fantasioso”.

Falabrach e Torino

Dunque il nostro Falabràch ha una lunga storia alle spalle. Il sostantivo “Falabràch” fu anche usato da Alberto Viriglio in un suo celebre scritto. Com’è noto, la privazione del ruolo di Capitale fu un trauma improvviso per Torino, che perse di colpo la sua identità senza alcuna sicurezza per il suo futuro. Questa incertezza allontanò imprese e investitori, gettando la città in uno stato di prostrazione economica, la cui manifestazione più appariscente, oltre al calo repentino della popolazione da 220.000 a 193.000 abitanti, fu la chiusura di un grande numero di negozi, botteghe, locali di ristorazione.

Viriglio, commentando a posteriori questi avvenimenti, ne schernì la drammaticità, sminuendone la portata e scrivendo: “Chi dice che la crisi del 1865 fu un male?

E’ vero, Torino ha perso degli abitanti, ma non era quella la vera popolazione della città: abbiamo solo perduto le legioni di stupidi perdigiorno che affollavano i caffè!”. Ossia, con le parole di Viriglio: «Turin a l’a përdù ‘nt ël 1865 ij batàjôn ‘d falabràch che a fôrmavô la vita fitìssia dla Sità e la pôpôlassiôn d’ij café».